Giulia Chersoni (Eurac Research Bolzano), Silvana Dalmazzone (Università di Torino), Elena Vallino (Università di Torino e OEET)[1]

 

Water, is taught by thirst. | Land – by the Oceans passed

(Emily Dickinson, Poems, 1896)


La voce dei paesi in via di sviluppo portata da Mia Mottley, Primo Ministro di Barbados, alla COP26 del 2021 ci fa riflettere sulle disuguaglianze nelle responsabilità e negli impatti dei
cambiamenti climatici fra nord e sud del mondo ma anche all’interno di paesi industrializzati fra fasce di reddito diverse. La Prima Ministra di Barbados, Mia Mottley, nel discorso di apertura della COP26 di Glasgow, UK (31 ottobre - 13 novembre 2021), aveva riassunto in pochi minuti diverse questioni estremamente complesse e rilevanti per le politiche relative al cambiamento climatico, con toni molto diretti. Aveva detto che gli impegni sulle politiche di mitigazione del cambiamento climatico sono encomiabili, ma non sufficienti, e anche che molti attori coinvolti basano i loro impegni su tecnologie che non esistono ancora, e ciò è come minimo imprudente, ma nel peggiore dei casi anche molto pericoloso. Aveva anche ricordato che la differenza di risorse economiche fra il livello necessario e quello stanziato per far fronte ai danni derivanti dal riscaldamento globale già in essere si misura in perdita di mezzi di sussistenza e di vite umane nei paesi piu’ poveri o piu’ vulnerabili. Questo è sia iniquo che profondamente immorale.

 Responsabilità ineguali

In questa breve nota vogliamo quindi ripercorrere alcune delle questioni chiave menzionate nel discorso di Mottley, anche in occasione della COP27 attualmente in corso in Egitto. Sappiamo che l'innalzamento delle temperature e il conseguente cambiamento climatico sono fenomeni globali. L’anidride carbonica continua a concentrarsi nell’atmosfera, indipendentemente dal luogo di provenienza. Al contrario, i comportamenti che hanno generato lo sconvolgimento nella composizione dell'atmosfera del nostro pianeta non provengono in modo uguale dalle diverse parti del mondo.
Dei 2.500 miliardi di tonnellate di CO2 emesse dal 1850 ad oggi, il Nord America è responsabile per il 27%, l’Europa per il 22%, la Cina per l’11%, l’Asia, la Russia, l’America Latina e il Medio Oriente intorno al 7% ciascuna, l’Africa sub sahariana per il 4%. Alle emissioni prodotte da un paese si aggiungono quelle associate ai prodotti importati, fabbricati in altre nazioni. Considerando questo aspetto, la differenza aumenta ulteriormente (Chancel et al. 2022).
Qui si trova il fondamento della cosiddetta climate politics globale: le nazioni che si sono arricchite emettendo gas a effetto serra hanno ora la responsabilità di abbattere le emissioni
piu’ velocemente e di impegnare risorse economiche per aiutare le nazioni piu’ povere ad adattarsi al cambiamento climatico.
Tuttavia Thomas Piketty e il suo team ci dimostrano che oggi la disuguaglianza di emissioni all’interno delle stesse nazioni costituisce la parte piu’ consistente della disuguaglianza globale complessiva. In altre parole, gli individui che emettono molta CO2 hanno moltissimo in comune fra loro (alto status socio-economico) in modo trasversale fra le nazioni. Se consideriamo il reddito, vediamo che la popolazione che detiene il 10% del reddito globale è responsabile di circa metà delle emissioni, mentre il 50% della popolazione con reddito più basso è responsabile del 12% del totale (Chancel et al. 2022).
Se traduciamo queste percentuali in tonnellate di emissioni di CO2 equivalente, il 10% piu’ ricco della popolazione emette circa 69 tonnellate a testa all’anno in Nord America, 27 in Europa e 34 in Asia. Invece la metà piu’ povera della popolazione emette circa 5 tonnellate a testa all’anno in Europa, 10 in Nord America e 3 in Asia (ibid.).
La media mondiale di emissioni è di 6,6 tonnellate di gas serra all’anno pro capite e il budget di emissioni considerato sostenibile per limitare il riscaldamento globale sotto il limite di 1,5 gradi è 1,1 tonnellate a testa all’anno. Si tratta di 6 volte meno della media attuale. In realtà se tenessimo conto delle diverse responsabilità storiche, le nazioni ricche non avrebbero alcun budget residuo (ibid.).
Il dato storico ci permette di capire quanto i livelli di diseguaglianza siano cresciuti negli ultimi 30 anni: le emissioni pro capite sono aumentate per l’1% più ricco della popolazione, ma sono diminuite per i gruppi più poveri nelle nazioni ricche. Per loro in realtà i target di emissioni stabiliti per i paesi ricchi per il 2030 sono già stati raggiunti (ibid.).
Se guardassimo all’emergenza climatica in un’ottica di equità, dunque, dovremmo progettare politiche di mitigazione focalizzate non sul contributo nazionale ma su misure che richiedano l'abbattimento delle emissioni, in ciascun paese, da parte delle fasce più ricche della popolazione. I dati ci dicono che fino ad ora è accaduto il contrario, con maggiore peso delle cosiddette carbon taxes sulle classi di reddito medio e basso (Chancel 2021). Se chiediamo una maggiore riduzione delle emissioni ai gruppi a basso reddito, dovremmo considerare una compensazione economica per questi soggetti per poter parlare di just transition. Si dovrebbe inoltre estendere il focus dai consumatori ai proprietari di patrimoni, tassando i capitali e gli investimenti nei settori ad alte emissioni.

Conseguenze diseguali

Anche le conseguenze del cambiamento climatico si distribuiscono in modo diverso fra nazioni e fra individui. Si parla meno dell’impatto diseguale fra individui ricchi e poveri in una stessa nazione, anche nei paesi ricchi, nonostante sia questo il divario che è in maggiore aumento negli ultimi decenni.
Le nazioni piu’ povere hanno piu’ probabilità di soffrire prima e in modo più forte , in quanto spesso sono collocate a latitudini dove la variabilità climatica è maggiore, dove la vulnerabilità a siccità o fenomeni meteo estremi era già più marcata e la scarsità di risorse più pronunciata, anche indipendentemente dal cambiamento climatico. Il Sud del Mondo quindi fronteggia i costi maggiori per adattamento o ricostruzione, ma allo stesso tempo è equipaggiato peggio per tali politiche a causa di risorse economiche limitate (Paglialunga et al. 2020, 2022).
Inoltre gli impatti del cambiamento climatico sono diversi fra gruppi di individui. Sono presenti circoli viziosi: i gruppi piu’ svantaggiati socialmente ed economicamente sono piu’ vulnerabili perchè sono piu’ dipendenti dalle risorse naturali, sono piu’ esposti agli eventi estremi per soluzioni abitative piu’ precarie e in aree marginalizzate, anche nei paesi ricchi, hanno meno risorse economiche per fare fronte ai rischi (meno assicurazioni o minore accesso a sistema sanitario). Questo accade in particolare nelle aree rurali, dove il cambiamento climatico genera perdite di raccolto e di reddito per gli agricoltori (ibid.).
Inoltre dei ricercatori hanno osservato che quando nei processi di globalizzazione un paese si inserisce solo in alcuni segmenti molto specializzati delle catene del valore, la sua vulnerabilità complessiva aumenta. Invece, se la partecipazione del paese all’economia globale porta apprendimento, diversificazione e aumento del livello di sofisticazione dell'economia locale, la sua resilienza anche verso eventi estremi climatici aumenta. Inoltre, se questo aumenta l’eguaglianza nella distribuzione dei redditi interna, anche la disuguaglianza negli impatti del cambiamento climatico diminuisce (ibid.).

L’energia

Per affrontare la crisi climatica è fondamentale passare da un sistema energetico alimentato da fonti fossili ad un sistema energetico alimentato da fonti rinnovabili.  Il settore energetico oltre che essere responsabile dei tre quarti delle emissioni di gas a effetto serra globali (https://ourworldindata.org/emissions-by-sector) è fondato su un modello energetico che comporta evidenti disuguaglianze in termini di accesso all’energia. A livello mondiale 1.4 miliardi di persone non hanno accesso all’elettricità e 2.7 miliardi fanno affidamento su biomasse come carbone e kerosene per cucinare, con gravi conseguenze in termini di malattie e mortalità a causa  della cattiva qualità dell’aria all’interno delle abitazioni (WHO, 2021). Le persone che non hanno accesso all’energia vivono principalmente  nelle zone rurali dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia, (escludendo la Cina) (https://www.intechopen.com/chapters/49858). Le disuguaglianze in termini di accesso all’energia sono spesso associate ad altre forme di deprivazione: il basso reddito non permette di aumentare gli standard di vita e implica usare parte consistente delle proprie risorse per servizi energetici non salutari e costosi, spesso non sufficienti a soddisfare i bisogni essenziali.

L’International Energy Agency stima che un investimento di 30 miliardi di dollari l’anno da qui al 2030 sarebbe sufficiente a dare accesso ad energia proveniente da fonti rinnovabili a tutta la popolazione africana, per fare un paragone, meno dei 44 miliardi che Elon Musk ha pagato per acquistare Twitter (IRENA 2021). 

Il problema della povertà energetica non riguarda solo i paesi in via di sviluppo, ma anche i paesi sviluppati. In Europa, prima della pandemia di Covid-19, circa 34 milioni di persone non avevanola possibilità di riscaldare adeguatamente le proprie abitazioni o accedere ad altri servizi energetici essenziali ad un costo sostenibile (EU 2021), con  impatti non solo in termini di salute, ma i anche sui livelli di istruzione,benessere psicologico e stigma sociale.  A differenza dei paesi in via di sviluppo, in Europa le cause strutturali sottostanti la povertà energetica dipendono non solo  dai bassi livelli di reddito, ma anche dagli alti prezzi energetici e dai bassi livelli di efficienza energetica delle abitazioni.

 Storicamente le politiche a livello Europeo hanno affrontano il problema della povertà energetica con interventi di sostegno al reddito, affrontando quindi il problema come meramente sociale (https://www.arera.it/it/bonus_sociale.htm). Queste politiche sono fondamentali nel   breve periodo, ma non comportano un miglioramento strutturale delle condizioni delle persone fragili e  comportano un’elevata spesa pubblica, soprattutto in momenti come quello attuale in cui i prezzi dell’energia sono particolarmente alti. Viceversa, politiche strutturali  che incentivano l’efficientamento energetico delle abitazioni, contribuiscono sia alla riduzione dei costi energetici che all’abbattimento delle emissioni.

Le soluzioni per affrontare la sfida della transizione energetica esistono, ma affinché questa transizione non generi nuove forme di povertà e disuguaglianza, ma rappresenti un’opportunità di progresso, deve essere affrontata in un’ottica di giustizia sociale. La sfida della transizione energetica deve mirare ad assicurare un accesso all’energia che sia universale, a buon mercato, verde e affidabile per efficacemente combattere la povertà, creare nuove opportunità di lavoro e promuovere l’uguaglianza. Per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di politiche inclusive, per assicurare che “nessuno sia lasciato indietro". Bisogna passare da politiche con scopi di parità ed uguaglianza, che danno stesse risorse e opportunità a tutti , a politiche che abbiano scopi di equità, dove si dia priorità  ai bisogni dei più vulnerabili, fornendo le risorse e le opportunità necessarie per raggiungere un livello di benessere uguale tra le diverse fasce della popolazione. I costi che la transizione energetica comporta dovranno essere condivisi in modo giusto, per portare il sistema verso un livello di giustizia sociale permanente a beneficio delle generazioni future.

Strade da percorrere

In un’ottica globale, Mia Mottley aveva ricordato che esiste una “spada che possiamo brandire”. Le Banche Centrali dei paesi più ricchi, attraverso politiche monetarie espansive per stimolare la crescita economica e produttiva e per sostenere il debito pubblico, hanno impegnato nell’economia 25.000 miliardi di dollari negli ultimi 13 anni. Di questi, 9.000 miliardi sono stati stanziati negli ultimi due anni per combattere la pandemia. Mia Mottley ricorda che se avessimo investito queste risorse per finanziare la transizione energetica, la sostenibilità del sistema alimentare e dei trasporti, oggi saremmo sulla strada giusta per mantenere la temperatura globale entro il limite di 1.5 gradi.

Per affrontare la crisi climatica  oggi avremmo bisogno di un finanziamento di 500 miliardi all’anno per i prossimi 20 anni, che equivalgono al 40% dei 25.000 miliardi impegnati a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Non sono sufficienti i 50 miliardi di dollari l’anno concordati alla COP26. Non investire nella transizione ecologica  porterebbe al peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone, aumentando le difficoltà di adattamento al cambiamento climatico, le migrazioni di massa e il risentimento sociale.  Per le comunità più vulnerabili, come quelle costiere,  comporterebbe il rischio di non esistere più da qui ai prossimi 100 anni.

Per concludere

La pandemia e oggi la guerra in Ucraina ci insegnano che per affrontare le sfide globali servono sforzi globali, ma affinché le soluzioni siano per tutti, queste dovranno essere giuste. Le grandi trasformazioni sociali del passato, come la rivoluzione industriale o digitale sono state originate dal cambiamento tecnologico e sono poi state guidate sia dalle forze di mercato che da quelle statali. Oggi ci troviamo per la prima volta di fronte al compito di progettare, implementare e governare un cambiamento profondo e deliberato, e in pochissimo tempo – i prossimi 10 anni saranno decisivi. Inoltre, le trasformazioni necessarie non hanno alcuna chance di successo se non vengono costruite su una base di forte legittimità sociale. Per questo pensiamo che la transizione ecologica non possa fare a meno di essere anche socialmente giusta, o non sarà.

Fonti

Chancel, L., Piketty, T., Saez, E., Zucman, G. et al. World Inequality Report 2022, World Inequality Lab wid.world

Chancel, L. (2021) The richest 10% produce about half of greenhouse gas emissions. The Guardian. 7/12/2021 (https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/dec/07/we-cant-address-the-climate-crisis-unless-we-also-take-on-global-inequality)

European Commission - Energy Poverty Observatory (EPOV)

EU Energy Poverty Advisory Hub, 2021: https://energy-poverty.ec.europa.eu/system/files/2021-12/EPAH-leaflet-singlepages-EN.pdf

IRENA (International Renewable Energy Agency), 2021: https://www.irena.org/-/media/Files/IRENA/Agency/Publication/2021/March/Renewable_Energy_Transition_Africa_2021.pdf

Mia Mottley, Prima Ministra di Barbados, COP 26, Glasgow, UK: https://youtu.be/PN6THYZ4ngM

Paglialunga E., Coveri, E., Zanfei A., 2020, The climate change-inequality nexus and the role of mediating factors. Emerging Economies. https://www.osservatorio-economie-emergenti-torino.it/emerging-economies/59-17-december-2020/284-the-climate-change-inequality-nexus-and-the-role-of-mediating-factors.html

Paglialunga, E., Coveri, A., & Zanfei, A. (2022). Climate change and within-country inequality: New evidence from a global perspective. World Development, 159, 106030.

Sattler M. L., 2016, Energy for Sustainable Development: The Energy–Poverty–Climate Nexus. In Bernardo Llamas Moya and Juan Pous (eds) Greenhouse Gases. IntechOpen. 978-953-51-2273-9. https://www.intechopen.com/chapters/49858

 

 

[1]  Questo testo è stato presentato all’Unito Speakers’ Corner, Festival Internazionale dell’Economia, Cortile del Rettorato dell’Università di Torino, 4 giugno 2022
(https://www.unito.it/ateneo/gli-speciali/universo-dibattiti-eventi-discorsi-sul-mondo-contemporaneo/speakers-corner)

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